Carpe

C. Govoni, Il Palombaro, in Rarefazioni e Parole in libertà, 1915

File di cabine mangiate dal sale e dalle nostre notti, che non abbiamo mai saputo leggere. Sei veramente stupido, io più di te. Posso solo rincorrere me stessa, tra le cabine, tra queste giornate tutte uguali ed io che non mi sento mai abbastanza, che non riesco più a scrivere niente. Mangiata dal sale della mia pelle, questo animaletto che a volte mi dimentico di essere. Una carpa, centenaria, nel laghetto al parco di Nervi. Vorrei essere volpe, ma sono carpa, senza segreti nello stagno. Passa un altro compleanno, ne passeranno altri insieme al tempo, alle foglie e alle cabine. Perché farsi tutti questi problemi. Non ha senso, pensieri aggrovigliati che posso snodare solo io. Un po’ mi piace essere così, un po’ credo di non esserlo più. 

Qualche tempo fa avrei riempito mille pagine di me stessa, ora annoto solo paragrafi stupidi. Dico vorrei, dico potrei, millanto grandi capacità, e sono una carpa, una piccola carpa che sbatte sui bordi di un laghetto artificiale, aspettando le molliche di pane. Non posso neanche seguirle nel mio mondo delle fiabe, le vedo soltanto e vengono mangiate dalle mie stupide compagne di vita. 

E ti devo ringraziare per tutte le dimenticanze che mi regali.

Porte in faccia

Vorrei prendere una porta in faccia, sbatterci il muso, squarciarmi le labbra e piangere a dirotto. La vorrei prendere sia in senso metaforico che effettivo, sentire il sangue che scorre dalla fronte, leggero diadema di coralli.

Invece riesco sempre a schivare tutto, da brava anima meticolosa e noiosa, perché osservo e cerco di vedere tutto -e non vedo niente. Mi sento pulita, e stupida, piccolina.

La devi smettere, devi dire quello che senti.

Sì va bene, certo, ma io non lo so, non mi so ascoltare. Posso raccontare qualche altra favola e intrecciarla per bene, tanto è difficile che qualcuno poggi il suo sguardo sulle mie trame. Quindi gioco a comporre filastrocche, che suonino bene, dolci ninne nanne che vanno sempre un po’ troppo di fretta in queste notti.

Quindi mento, perché non sono pulita e sanguino già, sbucciate le ginocchia, senza nessun re a baciarle, a chiedere pietà. Mi piacerebbe avere un padre che chiede perdono, ad agguantarmi gli stinchi, io lì, sopra, alta, a scegliere se concordarlo o meno.

Invece niente, e se lo avessi non lo farebbe mai.

Domenica (anche se è venerdì)

Mi domando che cosa io stia ancora inseguendo, a che ora sia l’appuntamento con tutte le cose che penso. Probabilmente ho soltanto perso di nuovo l’orologio e mi ritrovo a poter navigare soltanto sulle tue mani. Mani grandi e così piccole, come te, chirurgo professionista. Capace di scegliere su quale lato del letto, e della vita, dormire.

L’altro giorno ho detto la stessa cosa a più persone, chi ha risposto con “ma che dici, non è vero”, chi “me ne sono un po’ accorto in realtà” . Una sola che mi ha capito, ma me l’aspettavo. Solo adesso capisco perché ci ho creduto così tanto e perché, poi, ho voluto fargli così tanto male.

Gli ho detto che, ultimamente, io non sento più niente. Risponde che potrebbe anche essere vero, che è normale, ma che è anche ora di andare avanti, che è finita l’emergenza, che posso tornare ad essere me stessa. Mi chiedo quale delle ultime sei che ho indossato negli ultimi anni. Rispondo che non ho idea di chi io sia, “nessuno sa chi è, ma io so chi sei tu”. Un po’ mi spaventa, che tu lo sappia, dico.

Ho voglia di attaccare, di scappare di nuovo, tornare al mio niente. Perché in realtà, sotto sotto, ci credo al fatto che lui mi conosca meglio di chiunque altro, anche nel mio destino di tempi sballati, di incontri arrangiati con me stessa, quelle rare volte in cui mi guardo negli occhi e ammetto la mia verità, perché tanto la so. Faccio solo finta di essere cieca.

“Se non sentissi niente, come hai sempre detto di fare, non scriveresti così”. Mi piace vederla in questo modo, ma non ci credo fino in fondo. È che, ultimamente, mi sembra che nulla abbia senso e che tutte queste lettere incastonate al meglio non aggiungano niente a chi sono, solo un’altra inutile facciata. Una bella facciata, questo sì.

“Io so parlare, ma non saprei mai metterlo sulla carta”, continua.

Ottima idea, considerando che non si legge più. Ma è il mio e sono sicura del fatto che, prima o poi, sarò così tranquilla da farmi leggere tutta. È davvero finito il tempo degli occhi che lampeggiano, in allarme. Finite le fiamme. È tutto spento. Forse non è che non sento niente, è che ho sentito un po’ troppo ed avevo bisogno di calma apparente. Devo soltanto imparare a convivere con la normalità e non incolparmi di niente, (più che per conviverci, per sopravviverle). Forse è solo domenica.

E poi mi piace davvero troppo scrivere.

Il fango sulle scarpe

Cola liquido il mattino, lo pesto con la suola delle scarpe, sporche come mi sento io, senza sapere come. Sono piene di fango, eppure ero stata attenta a dove mettere i piedi.

Mi ero fatta anche la doccia. Vai a capire cosa ho lavato: forse ho sfregato troppo la mia pelle e adesso non ho più niente da mettere, mi rimane solo questa sagoma sfilacciata, da rammendare con ogni mia parola.

Venticinque anni, a metà tra un rum e cola e una stazione di servizio. Ci vuole poco per capire che ci penserà la pioggia ad annacquare la vita, oltre a questo rum e cola con troppo ghiaccio.

Mi fa schifo il rum e cola, per inciso, ma io non lo dico mai; per inciso, io non lo dico mai quello che penso. Finisco allora per affogare, stasera in una pozzanghera, domani in te, magari, mentre tu nemmeno te ne accorgi, ubriaco di luna e di altri occhi, anche perché i miei, per inciso, non te li ho mai fatti vedere.

È che io mi ci impegno proprio, a non vederti, per non stare male (codarda, bambolina), sentendomi anche furba, li so ingannare i miei pensieri (non così bene a quanto pare). Solo grazie a me i miei scogli possono diventare ninfee di catrame, contro cui scagliarmi e spaccarmi in mille pezzi. Non voglio essere così, crepata sì, rotta no.

Solo adesso mi rendo conto che si entra di fretta

in queste notti di pioggia,

e si aspetta che smetta,

ma senza gocce

nulla può traboccare

ed io ho sempre avuto troppa sete e fame

per ricordarmi che la più grande questione

è chiedersi perché, quando non ci sono le nuvole,

piove.

Edera

Qualche giorno prima, mentre camminava su un marciapiede illuminato da un sole stranamente estivo, aveva scoperto di avere freddo e, nello stesso momento, aveva scoperto una libellula volarle accanto. Non le piacevano molto, le libellule. Ne aveva sentito il ronzio, e non è che non si aspettasse un insetto, però si era spaventata. Il problema sembrava essere il fatto che si era abituata agli insetti che vedeva tutti i giorni, a tutte quelle falene di cui, alla fine, era parte anche lei: alle volte capitana inconsapevole della schiera; alle volte ribelle, decisa a non essere attratta da alcuna luce confusa. Per questo, insieme al freddo, era arrivata la consapevolezza di saper amare solo le cose confuse, le matasse dentro cui perdersi, sciami benedetti.

Avrebbe dovuto subodorare, come durante una caccia, il sotterraneo, forse unico, desiderio delle matasse, ovvero quello di non essere sciolte. Sempre stata troppo testarda per ammettere le metamorfosi dei suoi pensieri, continuava per la sua via, sentendo il freddo nelle ossa. E in più, come si può richiedere ad una falena una qualsiasi strategia militare, quando segue ogni luce convinta che sia il sole?

Avrebbe dovuto immaginare, come nei suoi sogni migliori, scenari più realistici, quelli in cui si sarebbe bruciata, poi dopo avrebbe assaporato le ferite, strappato via le croste, fino a far diventare ogni sua emozione una cicatrice, un crinale sulla pelle. Unico modo attraverso cui l’avrebbe mostrata e non sentita più.

Potendosi prendere cura solo del freddo, si infilò una felpa senza zip -le odiava le felpe senza zip, ma si era portata solo quella dietro, e le stava stretta come le stava stretta la sua vita. All’alba dei suoi venticinque anni guardava il mondo srotolarsi ai suoi piedi e, al posto di afferrarne un lembo, continuava a scivolare, preda di una malattia per cui non esisteva una cura certa, solo infiniti tentativi. Prima o poi avrebbe azzeccato la medicina, di questo era certa, ma non sapeva ancora quando. C’entrava anche il fatto che spesso le capitava di dondolare e non se ne spiegava il perché. Per questo era alla perenne ricerca di un equilibrio, preferendo parlare soltanto di cose sceme, per non crepare quella calma apparente, costruita con tanto impegno. Temeva che i suoi pensieri potessero rabbuiare gli occhi degli altri. Le volte che aveva deciso di schiudersi, del resto, era andata proprio così, ed inevitabilmente aveva perso quel desiderio di far spuntare se stessa. Aveva iniziato a pensare che era il destino ad aver scelto per lei una vita fatta di ritardi ed attese mancate, che era il destino a strapparle le ali, farle spuntare, poi reciderle di nuovo. Loro, come petali testardi, rinascevano dopo ogni abituale dolore, cieche come solo il sole poteva renderle.

Ed era piccola, anche in forma umana, e quella libellula l’avrebbe mangiata.

Lontano ma non troppo

Stanotte sul mio letto la luna mi bacia la schiena, sul soffitto le ombre si incastrano come in un labirinto di cui vedo solo i rami, senza spine. 

Mi sembra di non provare emozioni, tutto così veloce. Ho il petto più pesante, come un fiume che scorre tra le costole e non sa dove sgorgare, in un pianto che continuo a cacciare. Credo di essere una di quelle anime che corrono al contrario, che quando tutto è passato, scelgono di lasciarsi ai ricordi, e intanto vivono il presente come un sogno di cui non sono mai completamente parte. Anime che non sanno come scappare, rimangono impigliate, ancorate, a queste lenzuola, a questa luna scappata da una notte buia. Io la guardo e so di essere la faccia che non si vede. È che ho capito una cosa: se la vita è così, bisogna morderla con i denti, avere il coraggio di cercare il bello dove non dovrebbe essere perché manterrà ancora di più lo sguardo. 

E sono seduta qui a guardare le lavatrici girare. Non riesco nemmeno a seguirle. Tutto gira qui dentro e le persone fissano il nulla come me. So di essere come loro, con lo sguardo liquido, pieno del detersivo in polvere comprato alle macchinette, con la vita sporca come i panni. Forse, se piangessi qui dentro, avrei lacrime di schiuma, morbide. Ho voglia di ballare ma devo piegare, oltre che le lenzuola, la mia vita.

20144 (MI)

Milano, Autunno 2019

A Milano ci sono moltissimi fiorai.

Non in mezzo alla strada ma con le vetrine, 

i fiori come vestiti, i petali tessuto,

Molte volte mi sono domandata 

come debba essere indossare

rose, orchidee, glicini, peonie.

I fiori hanno sempre nomi così belli, 

persino loro profumano. 

Non so se dai finestrini di questo tram 

io sembri un bel fiore,

non so se qualcuno mi sceglierebbe, 

ma non è questo 

il punto, 

non questo 

il fine, 

perché tanto io da Milano me ne vado

e mi mancheranno solo i fiori delle vetrine.

Cinque mesi

Tutto è sponda, eppure affogo. Tutto è sponda ma non ci sono più le tue braccia sulla riva, solo appigli di roccia macchiata di sale. Tutto è sponda, vorrei saper tagliare la mia anima e servirtela tra le lettere. Invece ci muoviamo, come un’onda, le tue labbra spuma, le mie la bevono avida e mi sembra vino rosso. 

Tutti vanno avanti tranne me, con una maledizione, come una croce, nascosta sotto il seno, in modo tale che nessuna possa vederla mai: essere seconda. Seconda ad un punto, seconda ad un desiderio che non coincide mai con quelli che scaldo sotto le palpebre. Sono riuscita, con il tempo, a dissezionare i miei sentimenti, con la precisione di un chirurgo, e distinguo cosa mi fa bene da cosa mi fa male. So anche non farlo vedere. Sono di nuovo un mare piatto, da quando si sono dimenticati di svegliarmi perché era più facile così, perché sennò divento lava e non si possono arginare le mie parole. Scelgo, scelgo ogni istante come sentirmi, quale me indossare, se essere una cosa con due gambe, un’immagine o qualcuno di cui ci si dimentica il nome.

Scelgo io o sceglie la luna cosa mi conviene sognare? In queste notti li sto dimenticando tutti, i sogni, come se non accadessero e spesso mi capita di confonderli con la realtà. Mi ripeto spesso che devo riuscire a fare le cose che mi piacciono di più, che devo smetterla di pensare troppo eppure, sebbene mi professi nel mezzo, o penso troppo o non penso niente. Mi fa sanguinare, questa maledizione, forse perché so apprezzare solo le cose piccole e non quelle enormi, i dettagli insignificanti della vita, questa mania di stupirmi delle cose cretine. Anche perché, le grandi gesta sono passate di moda, e, in tutta sincerità, quando le ho provate, non sono andate poi così bene. Era persino bello sentirsi dire di no, sentire. Adesso in questa bolla di mezzo in cui non penso non riesco a vedere niente che non sia il niente. Seconda, medaglia d’argento nella vita, ci hai provato, ce l’hai quasi fatta, ed io so che sono io a competere in gare che non esistono. Non dovrei, eppure lo faccio. E quindi finisco seconda, perché non riesco a vedere che ho tagliato il traguardo. Conta questo. Vorrei soltanto che qualcuno mi vedesse.

Ma va bene così, va bene proprio così.